arte povera Collezione Peruzzi
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Gli artisti dell' Arte Povera nella Collezione Peruzzi Francesco Poli La collezione Peruzzi è una raccolta di grafica
di grande rilievo, che documenta in modo ampio e esauriente le principali
tendenze artistiche italiane dagli anni Cinquanta agli anni Settanta circa,
attraverso opere di molti fra i principali protagonisti dell’Informale
(Giuseppe Capogrossi, Lucio Fontana, Alberto Burri, Pietro Consagra, Emilio
Vedova, Afro, Arnaldo Pomodoro), del design creativo (Bruno Munari), di
diversi aspetti della scultura (Fausto Melotti, Arnaldo Pomodoro, Andrea
Cascella, Alik Cavaliere, Mauro Staccioli, Giuseppe Spagnulo) della Pop Art
(Mimmo Rotella, Valerio Adami), dell’arte concettuale (Piero Manzoni,
Vincenzo Agnetti) e soprattutto dell’Arte Povera (Jannis Kounellis,
Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Giulio Paolini, Giovanni Anselmo,
Alighiero Boetti, Gilberto Zorio, Giuseppe Penone, Luciano Fabro, Pier Paolo
Calzolari, Emilio Prini, Gianni Piacentino e anche per certi versi Claudio
Parmiggiani. L’Arte Povera è la tendenza italiana degli anni
‘60/’70 che ha avuto il maggior successo a livello internazionale. A partire
da presupposti teorici e operativi comuni, gli esponenti di questo gruppo
hanno sviluppato la loro ricerca in termini personali, e tuttora sono
attivissimi sulla scena dell’arte (salvo purtroppo Boetti, morto nel 1994,
Merz, mancato nel 2003 e Fabro, scomparso nel 2007). Il critico Germano Celant nel 1967 (ispirandosi
al termine « teatro povero » di Grotowski) definisce come
« arte povera » il gruppo che comprende, oltre agli artisti già
citati, Pino Pascali, Emilio Prini, Pier Paolo Calzolari, e anche
inizialmente Piero Gilardi, Mario Ceroli, Paolo Icaro e Gianni Piacentino. Si
tratta di un’area di ricerca strettamente connessa alle esperienze europee e
americane della Process Art e della Conceptual Art. L’arte povera è stimolo a verificare
continuamente il proprio grado di esistenza mentale e fisica. E’ indirizzata
a presentare il senso e il significato fattuale delle cose reali quali entità
naturali, animali, vegetali, ma anche industriali. E’ la valorizzazione
dell’elemento primario (terra, acqua, fuoco, animali, energia, elementi quotidiani).
E’ una fisicizzazione dell’idea e di una conoscenza
fisica ; un’idea tradotta in materia. Cosi’
commenta Celant la prima mostra del gruppo « Arte Povera- Im
Spazio », da lui organizzata nel 1967 alla Galleria La Bertesca di
Genova : « I lavori di Paolini, Boetti, Fabro,
Kounellis, Pascali, riguardano fondamentalmente archetipi mentali e fisici,
tentano di evitare ogni complicazione visuale per offrirsi come ‘dati di
fatto’. I singoli lavori dimostrano una tendenza generale all’impoverimento e
alla deculturalizzazione dell’arte. Sono un
contenitore di carbone (Kounellis), una catasta di tubi di eternit), una
tautologia del pavimento (Fabro), due cubi di terra (Pascali), la lettura
dello spazio (Paolini) e il perimetro d’aria di un ambiente connotato
sonoramente e visivamente (Prini). La definizione di Arte Povera viene precisata nel
testo programmatico Arte Povera. Note per una guerriglia (« Flash
Art », novembre-dicembre 1967) e in quello che accompagna la seconda
mostra « Arte Povera » alla galleria De’Foscherari di Bologna
(inizio 1968) dove si parla tra l’altro di « un’arte che trova
nell’anarchia linguistica e visuale, nel continuo nomadismo
comportamentistico il suo massimo grado di libertà ai fini della
creazione », e si sottolinea in particolare il carattere tautologico dei
valori : « l’arte povera, un esserci teso all’identificazione,
cosciente, reale=reale, azione=azione, pensiero=pensiero, evento=evento,
un’arte che predilige l’essenzialità informazionale. Un certo numero di artisti del gruppo partecipano
alla fondamentale esposizione « When Attitudes Become Form »,
curata da Harald Szeemann nel 1969 alla Kunsthalle di Berna, in cui per la prima volta viene
messa a fuoco la situazione internazionale che comprende oltre ai poveristi gli
esponenti americani e europei della Process Art,
Land Art, e Conceptual Art. Dopo questa mostra,
nello stesso anno, Celant pubblica il libro Arte Povera, dove questa
definizione viene utilizzata in modo allargato non solo per designare gli
italiani, ma anche gli altri artisti europei e americani con analoghe
attitudini di ricerca. In tutto sono trentasei, invitati a usare liberamente
le cinque o sei pagine del volume messe a loro disposizione : Andre,
Anselmo, Barry, Beuys, Boetti, Boezem, Calzolari,
Walter De Maria, Dibbets, Fabro, Flanagan, Haacke, Heizer, Hesse, Huebler, Kaltenbach, Kosuth,
Kounellis, Long, Merz, Morris, Nauman, Oppenheim, Paolini, Penone,
Pistoletto, Prini, Ruthenbeck, Serra, Smithson, Sonnier, Van Elk, Walther,
Weiner, Zorio e il gruppo teatrale dello Zoo. Ma in ogni caso l’etichetta,
per quanto fortunata, rimarrà a indicare solo il gruppo degli artisti
italiani. Molto in sintesi cercheremo ora di mettere a
fuoco i caratteri peculiari del lavoro dei principali poveristi. La ricerca di Pistoletto è programmaticamente
variata e poliforme, opposta a ogni schema formalizzante e a ogni aspettativa
codificata : si progetta continuamente all’interno di una serrata
dialettica fra arte e vita, oggetto e comportamento. Partita dai quadri specchianti
del 1962, prende corpo al di là della dimensione dell’apparenza nella
concretezza dello spazio-tempo della realtà vitale, con una moltiplicazione
di oggetti, installazioni e anche performances (in particolare in
collaborazione con il gruppo dello Zoo). Fondamentale per tutti gli sviluppi
successivi è la realizzazione, nel 1965/66 del gruppo degli « Oggetti in
meno », un eterogeneo insieme di oggetti bizzarri, « poveri »,
pseudofunzionali e paraminimalisti,
caratterizzati da valenze imprevedibili e ironiche. Anche i successivi
lavori, specificamente « poveristi », realizzati nel 1967/69 si
basano su questi criteri : sono oggetti e installazioni di forma molto
libera e fluida, con un carattere intenzionalmente effimero. Di gioiosa e
ironica vitalità sono i lavori con gli stracci multicolori : il
« Muro di stracci », mattoni ricoperti di scampoli di stoffe ;
l’ « Orchestra di stracci », un mucchio informe di stracci con
un bollitore in azione all’interno, coperto da una lastra di vetro ; e
la « Venere degli stracci », un calco di una statua classica
appoggiata su un mucchio di stracci. Gli interventi dell’artista assumono
anche, in certi casi, un carattere concettuale. L’ironia contraddistingue, in particolare, le
opere di Boetti. Il suo lavoro è caratterizzato all’inizio dall’uso di
materiali come rotoli di cartone, tubi di eternit, tele mimetiche, e si
sviluppa successivamente soprattutto in direzione concettuale, non nei
termini freddi e rigorosi dei esponenti anglosassoni della tendenza, ma con
valenze ludiche attraverso la realizzazione di oggetti, disegni, arazzi
(ricamati da donne afgane), e mail art, lavori connotati dal gusto per i
giochi combinatori di segni e parole, dall’invenzione di procedimenti
operativi arbitrari, e dalla volontà di descrivere in forma inedita la realtà
politica e geografica. Complessa e imprevedibile è la posizione di Fabro
che si configura come una raffinata e sottile investigazione dello spazio in
lavori del 1965/67 e poi come una fantasiosa e ironica utilizzazione di
materiali poveri. E’ il caso delle « Lenzuola » e delle
« Italie » (esposte nel 1969). Le lenzuola sono appese al muro in
tre differenti maniere che non si limitano a enfatizzare l’effetto della
forza di gravità ma alludono anche ai panneggi dell’arte classica. Le
« Italie », costituite da materiali diversi (cristallo, piombo,
ferro, pelle ecc.) sono appese al contrario o appoggiate al muro. Liberata
dai suoi vincoli geografici e dal modo convenzionale di interpretazione, la
forma dello stivale acquista una libertà di significati che rovescia ogni
luogo comune fa riflettere sul senso dell’identità di una nazione. Il segno distintivo della ricerca di Calzolari è
la presenza di elementi del tutto congelati (tramite un procedimento da
frigorifero) in lavori dove compaiono insieme oggetti e scritte con risultati
di spaesante poeticità ; Del 1969 sono tre opere : « Un flauto
dolce per farmi suonare », una superficie congelata con la scritta del titolo
in rilievo e un vero flauto appoggiato ; « Impazza angelo
artista », una struttura a pavimento dove un tubo congelato è piegato,
alla stregua di un tubo al neon, in modo da presentare la frase del
titolo ; e infine « Il mio letto cosi’
come deve essere », dove questa scritta congelata è posata su un
materasso. A partire dal 1967, con « Margherita di
fuoco », Kounellis mettere direttamente in gioco il fuoco. Utilizzando
tavolette di metaldeide accese o, soprattutto, fiamme ossidriche con bombole
a gas, realizza installazioni variamente articolate su lastre di ferro, con
reti metalliche o semplicemente in rapporto con lo spazio espositivo,
collocando le fiamme sul pavimento o intorno sui muri. In questo modo lo
spazio viene intensamente sensibilizzato dall’energia primaria della luce e
del calore, con riferimenti sia alla sacralità primitiva sia alla civiltà
industriale. Nel 1967/69 arriva a coinvolgere direttamente la natura vivente
nello spazio dell’arte, mettendo in scena dei cactus, un pappagallo e addirittura
12 cavalli nella galleria di Sargentini a Roma. Il lavoro più tipicamente poverista di Kounellis
prende corpo attraverso l’elaborazione e la presentazione di materiali come i
sacchi di iuta cuciti su telai di ferro, o semplicemente esposti pieni di
granagli, riso, caffè ; la lana grezza su pali e telai ; il cotone
o il carbone presentati in contenitori metallici. Frequente è l’uso di lastre
e mensole di ferro come supporti di ogni tipo di materiali o oggetti. Spesso
compaiono elementi della memoria culturale classica. La concezione dell’arte di Merz è connotata da
una visione romantico-naturalistica del mondo inteso come un sistema di
energie vitali continuamente in espansione a tutti i livelli, da quello della
realtà umana quotidiana e politica a quello delle forze naturali di crescita
e sviluppo. Il lavoro dell’artista, con tutto il suo potenziale creativo
interagisce con gli oggetti e le forze naturali e sociali in azione, creando
delle opere che si pongono come nuclei attivi di energia estetica, di
sollecitazione sensoriale e immaginativa. Tipico del suo linguaggio è l’uso
di tubi al neon, con cui trafigge oggetti e scrive frasi, come quelle
collocate sulle sue strutture a forma di igloo. Gli « Igloo »,
intesi come archetipi dello spazio abitativo, ma anche come metafore del
mondo esterno e di quello interno della mente, vengono realizzati con i
materiali più disparati tra cui lastre di vetro, lastre di pietra, sacchetti
di sabbia, fascine di legna, tele di iuta. Nel 1970 incomincia a utilizzare per
i suoi lavori e le sue installazioni spaziali lo schema progressivo della
serie Fibonacci (1, 1, 2, 5, 8, 13, 21 e cosi’
via , dove ogni numero è la somma dei due precedenti), una
proliferazione che ha un rapporto con quella della crescita naturale, e che
diventa simbolo dello sviluppo e dell’espansione vitale in tutti i campi. La materia prima che contraddistingue ogni lavoro
di Zorio è l’energia nelle sue forme più diverse : tensione di gravità,
energia chimica, energia elettrica (luce e calore), laser, tensione elastica
specifica dei materiali, energia fisica dell’uomo. Le sue opere sono sistemi
attivi di energia che coinvolgono il contesto e anche lo spettatore,
innescando una sorta di sollecitazione estetica sensoriale, anche
pericolosa : presenza di acidi cimici (in « Piombi »,
1968) ; resistenze elettriche incandescenti (« Arco
voltaico », 1969, dove l’elettricità attraverso una pelle di vacca
conciata ; tracce di azioni violente (« Odio », 1969, una
semplice scritta realizzata a colpi di accetta sul muro). Una delle forme
privilegiate dall’artista è quella della stella, come emblema dell’energia
cosmica, che viene realizzata per esempio con barre incandescenti, con
giavellotti incastrati fra loro, o con raggi laser nello spazio. Nell’opera di Anselmo sono in gioco lo spazio, il
tempo, il movimento, l’energia, le forze di gravità e magnetiche, le
torsioni, le opposizioni fra materiali differenti (per esempio il granito e
l’insalata) ; è in gioco la luce, e opposizioni di concetti come
particolare/ o finito/infinito. Tutto questo si ritrova non in termini
metaforici ma come presenza immanente alla materia e allo spazio fisico.
L’elasticità e la tensione dei materiali sono il tema centrale di molti
lavori, tra cui le « Torsioni » del 1968. La dialettica fra finito
e infinito viene indagata a fondo attraverso installazioni fortemente
connotate in senso concettuale ma anche strettamente connesse
all’espressività diretta dei materiali. Per esempio, con una bussola
incastrata in una lastra di pietra grezza triangolare la cui punta è in
direzione nord; oppure con la proiezione di scritte come
« Particolare » o « Visibile » sui muri (1971-72).
La forza di gravità è presentata, per cosi’ dire,
allo stato puro nei pesanti blocchi di pietra attaccati in alto sui muri con
dei cavi d’acciaio, in una situazione di straniante sospensione sia fisica
che mentale (dal 1969). Infine, la ricerca di Giuseppe Penone (che inizia
ad esporre nel 1968/69) si contraddistingue, in particolare, da un lato per
una investigazione delle forze naturali di crescita degli alberi in rapporto
all’azione umana e, dall’altro lato, per una serie di analisi sulle soglie
sensoriali del corpo umano in rapporto alla realtà esterna. I suoi lavori più
noti sono delle travi squadrate al cui interno, attraverso un lavoro di
scavo, viene riscoperta la forma dell’albero con i suoi rami, cosi’ com’era in un’età più giovane. A parte va considerato il caso di Giulio Paolini, il cui percorso di ricerca tocca solo marginalmente l’arte povera, e si inquadra meglio nell’ambito dell’arte concettuale. Fin dall’inizio (1960) il suo è un procedere all’interno dell’universo dell’arte figurativa, un’analisi sui dati concreti della sua esistenza : la tela, il telaio, i colori, lo spazio espositivo, la firma dell’artista, l’occhio dello spettatore. In questa indagine autoriflessiva entrano in scena anche le immagini citate dalla storia dell’arte, come per esempio in « Giovane che guarda Lorenzo Lotto » (1967), un’affascinante spostamento mentale nello spazio e nel tempo dell’osservatore. |
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